Live from Libano - giorno 13 - un diario a due mani
Venerdì 3 ottobre - Giorno 13
Qui noi scriviamo ogni giorno. Perché questo paese ci dona emozioni, esperienze, riflessioni che non vogliamo perderci. Qui è importante scrivere per lasciare la nostra traccia in noi stessi.
Oggi è un giorno speciale.
E per questo, con il suo permesso, condividerò con voi una riflessione di Loredana, mia instancabile collega e compagna di avventura, per la seconda volta, qui in Libano.
"Con una profonda commozione e orgoglio per quello che stanno facendo i cittadini italiani nelle piazze, in supporto alla Flotilla, nonostante la stanchezza e la tensione di questa lunga missione in Libano affrontiamo con Vincenzo l'ultimo giro di boa della formazione e ci spostiamo ad Al Awade. Da qui la Siria la puoi quasi toccare, la respiri, la senti. Il viaggio verso il confine è lungo, in strade strette e a tratti distrutte, con dossi dello stesso colore dell'asfalto che vedi solo all' ultimo momento e che ti pesano sulla schiena. I chek point sempre più numerosi e più attenti, perché qui, in questa striscia di confine, dovunque ti giri sei in Siria e l'attenzione è alta. Al Awade è un villaggio rurale abitato da persone che sino ai primi anni 90 non esistevano, né per il Libano né per la Siria. Nati al confine, seppur in territorio libanese venivano considerati siriani. Lo stato siriano, ovviamente non li riconosceva poiché nati in terra libanese. E così sono rimasti per anni, senza diritti, senza identità, senza stato e senza possibilità di accedere ad un qualunque ascensore sociale. Hanno vissuto per anni di contrabbando, per un motivo semplice: riconoscerli come libanesi significava riconoscere troppi mussulmani sunniti che in una repubblica parlamentare confessionale significava rompere equilibri, creare disordini, avere un tipo di rappresentanza che i governi per anni non hanno voluto riconoscere. Per fortuna però un politico illuminato ed equo ha creduto nella giustizia laddove giustizia, non coincideva in quel momento con la legalità. Credo fermamente che il senso ultimo della pedagogia sia quello di insegnare a pensare, ma ancora di più quello di insegnare a aspirare alla giustizia. Perché se ciò che è legale è ingiusto, se le nostre norme non sono giuste, allora dobbiamo cambiarle se abbiamo il potere di cambiarle. Tutti abbiamo il potere, ognuno nel suo ruolo, di cambiare quello che si è dimostrato ingiusto, quello che si è dimostrato inaccessibile, quello che si è dimostrato curvo, non "diritto".
La giustizia è innanzitutto avere uno sguardo “diritto”. E in questo villaggio, abitato da gente profondamente diffidente, verso l'altro, verso comunità esterne, verso chi non ha vissuto l' ingiustizia abbiamo aperto una breccia nel cuore. Noi cosi diversi, cosi italiani, con una gestualità non appropriata per loro e forse un po ' irriverente e non comprensibile. Noi che ci sintonizziamo e che riusciamo con rispetto a fermare quegli atteggiamenti automatici e a far vedere l'obbiettivo comune, siamo riusciti a giocare insieme a loro, a coordinare i corpi, ad accendere scintille di sapere, a lasciare gioia, ad accettare il diverso perché il diverso, in realtà, può donare tanto e anche farci vedere le cose da altri punti di vista, all' interno della Giustizia e del Bene. Questo deve fare la pedagogia, questo deve fare la formazione: educare le persone, grandi o piccole che siano a voler essere giuste."
LOREDANA BARRA
Non voglio aggiungere niente.
Solo che domani ultimo giorno di formazione, poi subito dopo faremo il lungo viaggio di ritorno verso Beirut, dove dormiremo.
A domani

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